L’idea che si debba partire da un marchio aziendale è paradossalmente una sottovalutazione della cultura visiva, del design e della comunicazione, non è la considerazione del valore e del potere dell’immagine. Il brand territoriale è un punto di arrivo non di partenza.
Un marchio che dovrebbe promuovere un territorio non può seguire i percorsi di un’impresa. Un marchio è sempre di “qualcuno” e quando nasce prima che sia stata definita la “proprietà”, che in questo caso dovrebbe essere la comunità cilentana, nel suo insieme di forze economiche, sociali, culturali e politiche, rischia di creare divisione piuttosto che consenso, ma rischia anche di non essere utilizzato nel modo utile ed efficace.
È accaduto a molte esperienze di brand territoriale. Se vogliamo guardare alle storie di successo non possiamo che ricordare il marchio di New York, di quel geniaccio di Milton Glaser: I (cuore) NY.
Non si tratta di un semplice monogramma con il pittogramma del cuore, è la più grande invenzione di city branding della storia del design.
La vicenda rappresenta la più famosa “case history” di branding territoriale, ma parte dalla volontà di una committenza che sapeva esattamente cosa voleva ottenere.
Ora la questione è proprio questa. Una committenza non definita, non costituita come tale, in qualunque formula associativa, anche la più informale, deve comunque avere chiari almeno cinque semplici concetti:
1. Chi promuove il brand;
2. Quale strategia è sottesa all’utilizzo del brand.
3. Chi sono gli attori: ideatori, gestori e beneficiari;
4. Quali tempi e quali risorse saranno destinate al Piano di marketing;
5. Come vengono definite le regole di utilizzo di un brand territoriale. Ad esempio: chi lo registra, a nome di chi? chi ne deterrà la proprietà? Se non si riflette su queste procedure si rischia di non raggiungere alcun risultato qualificato.
Il marchio territoriale è un elemento grafico, ma è anche uno “strumento” potente; è il simbolo (pittogramma, monogramma, diagramma, con un complesso sistema di design in ogni caso), dietro il quale deve agire la comunità tutta, collettivamente protesa ad ottimizzare i benefici di una forza di penetrazione che il brand esercita, se ben ideato, minuziosamente strutturato, accuratamente declinato nelle sue articolazioni. I molti casi di insuccesso hanno alla base la mancanza di questi elementi.
Dove l’iniziativa ha avuto enorme fortuna, oltre NY, è Amsterdam, con il logotipo “i’amsterdam” che è già un claim, uno slogan, o in italiano, una dichiarazione di senso, tradotta in una soluzione verboiconica essenziale, ma potente. Ad Amsterdam sono riusciti a creare un enome sistema di identificazione del messaggio urbano, dai gadget, al web, dalle segnaletiche stradali (sistemando enormi lettere con il logo nelle piazze), a tutto il sistema di accoglienza e di benvenuto, ma anche una ben articolata serie di “prodotti” e servizi, materiali e immateriali, per promuovere i quali il piano è stato declinato accuratamente ed è diventato il protagonista del “design system”.
Un’esperienza meno felice anche dal punto di vista del design – non sono noti i risultati economici – è stato il brand di Pensacola, in Florida. In questo caso il modesto valore dell’aspetto visivo e l’eccessiva declinazione concettuale delle parole-chiave non ha giocato a favore, ma in particolare – ciò che a mio parere conta di più – è che il Committente (la locale Camera di Commercio) ha “firmato” l’iniziativa come propria, all’interno del brand.
È facile comprendere che mettere a viva forza un cappello su un brand territoriale è come dire “tutto il buono che ne verrà è merito nostro”; è una scelta che manca di lungimiranza e di una visione strategica.
È già accaduto anche al bellissimo brand “Italia”, dell’Enit (ideato da Franco De Vecchis nel 1987). Sono state impegnate molte risorse e istituite commissioni pletoriche di “grandi inesperti” di comunicazione per “rifare” (ne ho scritto altrove) un lavoro già esistente e perfettamente utile ad un progetto – mai avviato – di Marketing Italia.
Per non parlare del mai nato brand territoriale delle due nostre coste: amalfitana e sorrentina, che non troveranno un accordo se non con un “miracolo impossibile”, (l’ossimoro è il mio pensiero), goffamente passati per tentativi di accorpare segmenti diversi e target non omogenei, pensando che siano i marchi la soluzione.
A questo punto credo di poter chiarire perché sono contrario a partire dai marchi, ma preferisco – consiglio caldamente – di partire da un piano, di vedere prima di ogni scelta di design “chi” vuole avviare un piano di marketing territoriale, “chi” può diventare “incubatore-laboratorio” di un progetto di rilancio e valorizzazione.